La Voce: Rimini città d'arte difende Sgarbi [11.06.2004]

Lunedì 9 luglio 2001. Vittorio Sgarbi Sottosegretario del Ministero dei Beni Culturali è a Rimini. Con tutti i funzionari centrali e periferici dello Stato visita per ore il tempio Malatestiano poi ci convoca in Prefettura – noi di Rimini città d'arte: il presidente Attilio Giovagnoli, la Michela, Tale e chi scrive – con l'assessore Stefano Pivato, il consigliere Gioenzo Renzi, il vicario monsignor Aldo Amati, per fare il punto sui "restauri" del Teampio, sulla distruzione dell'Altare napoleonico, sul Crocifisso di Giotto appeso in alto nell'abside, sull'affresco di Piero della Francesca spostato in una cappella, sull'effetto gessoplastica dei rilievi "restaurati" di Agostino di Duccio, sulla firma di Matteo de Pasti cancellata nel restauro. Ci invita a segnalare al suo capo di gabinetto presente tutti gli altri disastri consumati a Rimini o in corso di consumazione. Concede un'intervista a Rai tre e afferma che il restauro del Teatro è ora un affare del Ministero e che verrà eseguito in modo filologico, "com'era e dov'era", come popolarmente si dice. Poi usciamo dalla Prefettura, si visita l'affresco duecentesco della Canonica che passa per "Campanile di S. Colomba", Castel Sismondo, il Ponte di Augusto e Tiberio, l'Anfiteatro. Giornata memorabile. Vittorio Sgarbi, superiore alla sua leggenda nera, si comporta da uomo di Stato e, senza fare scenate ai funzionari responsabili, cerca dei rimedi concreti là dove è possibile rimediare e dei principi di comportamento culturalmente corretti nel paese dell'anomia. Sono passati tre anni. Dell'intervento di Vittorio Sgarbi è rimasta l'avocazione allo Stato del restauro del Teatro. Chiusa la lunga vicenda dei sette-otto progettoni e progettini illegali, bocciati, riproposti e ribocciati, con il ben triste intermezzo del ministro comunista che venne a "far saltare i vincoli", la Sovrintendenza regionale sta curando la redazione del progetto filologico del Teatro A. Galli già Vittorio Emanuele II. E questo è un risultato notevole, raccomandato da vent'anni pressoché da tutti gli uomini della cultura musicale, teatrale, figurativa italiana, che si deve a Vittorio Sgarbi. Il resto è ancora una ferita aperta. Il Tempio Malatestiano, che è la Cattedrale napoleonica di Rimini – nel senso che Napoleone I Imperatore dei Francesi e Re d'Italia, l'anno prossimo faranno due secoli esatti, lo regalò insieme all'altare maggiore al vescovo di Rimini, esigendo peraltro che ne venisse rispettata l'identità monumentale non solo cristiana – ha sempre l'aspetto gessoso e i colori canarini che gli ha conferito il restauro. Il Crocifisso di Giotto è sempre impiccato sopra i bocchettoni dell'aria calda e cioè  a) non si può vedere da vicino, e  b) la microatmosfera lo sta distruggendo. L'affresco di Piero della Francesca, su indicazione dello "storico" della diocesi, è stato spostato dal luogo dove Sigismondo Pandolfo l'aveva dipinto, modificando l'apertura della finestra per illuminarlo meglio. Si è perduto il momento magico dell'attesa davanti alla porta rinascimentale, dell'arrivo dello scaccino con le chiavi antiche. Ora l'affresco è là appeso come un prosciutto in un supermercato per turisti di bocca buona. L'Altare maggiore napoleonico, opera dell'architetto Camillo Morigia, è stato privato di un gradino e incastrato in una cappella – la cappella degli orrori – proprio sotto l'affresco spostato.  Castelsismondo, trasformato in un contenitore, svolge la nuova funzione accogliendo le mostre preferibilmente cielline, finanziate dalla Fondazione. Un torrione quattrocentesco è stato riempito con un ascensore e una torre trecentesca piena è stata svuotata per sistemare la centralina del riscaldamento.  Il Ponte di Augusto e Tiberio è sempre a mollo nel laghetto spontaneo che si è formato dopo la soppressione del fiume Marecchia. E a mollo sono molte banchine del "porto", stabilmente alcune e tutte ogni tanto con l'acqua alta. I cementi "brutalisti" delle rampe sono sbriciolati.  L'Anfiteatro continua ad ospitare un'istituzione pedagogica, certamente benemerita, ma che lo occupa illegalmente e contro lo stesso buon senso. Inoltre non è stato tolto di mezzo il palco di cemento che lo deturpa.  Intanto ci sono state delle che novità accettabili, come il restauro della statua di Paolo V  – in attesa che ridiventi verde –, o  discutibili come la ricomposizione dell'arco antico di porta Montanara, secondo criteri più d'arredo urbano che culturali, poco distante dal suo sito archeologico – già che c'erano perché non l'anno ricollocato al suo posto? -.  Continua la cementificazione delle strade e delle piazze che è un disastro assicurato – andate a vedere com'è ridotta piazza Ferrari, e confrontatela con i pavimenti della vicina via Giovanni XXIII che sono in sasso di Pesaro del 1861.  E continua feroce l'accanimento contro le opere superstiti di Gaetano Urbani. Proprio in piena piazza Cavour, due delle tre belle inferriate disegnate da lui negli archi dell'ex Caffè Vecchi, in questi giorni sono scomparse. A proposito, è scomparsa anche la grande targa marmorea quattrocentesca dello stemma dei Melzi, che prima della guerra era collocata all'esterno e fino a pochi mesi fa era murata all'interno dell'atrio della Banca Nazionale dell'Agricoltura. A casa di quale collezionista di pietre è finita?  E' ben triste la serie delle opere dell'Urbani nella sua città, a cominciare dal Kursaal demolito nel 1948. A proposito, tutti incolpano della distruzione del Kursaal Cesare Bianchini, il ventenne primo sindaco comunista della Liberazione. Cesare Bianchini fu l'esecutore, ma il mandante della distruzione fu Giuseppe Vaccaro, architetto della Cassa di Risparmio di Rimini, che aveva "donato" alla città il piano regolatore di Marina. Un piano che risultò poi il cavallo di Troia della seconda ondata di capitalisti avventurieri che si abbatté su Rimini. I primi capitalisti avventurieri furono i "romani" della Nuova Rimini, i secondi furono i "milanesi" della Rema, che ebbero gratis quasi tutte le aree possedute dal comune "tra il piazzale del Kursaal e l'Ausa", in cambio di interventi urbanistici che per mancanza di capitali non eseguirono.  Poco dopo il suo intervento a Rimini, Vittorio Sgarbi fu oggetto di una rabbiosa campagna scandalistica da perte delle televisioni di Berlusconi e venne estromesso dal governo. Tra le ragioni vere della sua cacciata: il malumore dei vescovi di Pisa e di Rimini –"Berlusconi non fa la guerra ai vescovi", disse lo stesso Sgarbi–; inoltre il tentativo di impedire lo svuotamento del teatro alla Scala per farne un capannone di Mediaset e il tentativo di controllare la ventilata vendita di beni naturali e storici dello Stato per chiudere dei buchi di bilancio. Veniva così soffocato il primo serio intervento su scala nazionale, da parte di un uomo di governo, preparato e amante dei beni culturali, di rimediare ai dilaganti interventi distruttivi e insensati dei vari potentuccoli e architettucoli sprecamiliardi locali e nazionali.  Noi di Rimini Città Storica ringraziamo Vittorio Sgarbi per il suo impegno riminese e nazionale e ci auguriamo un successo delle sue idee e dei suoi programmi politici di salvaguardia e di valorizzazione della Bellezza, un "bene effimero" senza il quale non ha sapore la vita.

Giovanni Rimondini Vicepresidente di Rimini Città d'Arte.