GALLI, LA RINASCITA RIAPERTO DOPO 75 ANNI IL TEATRO RIMINESE BATTEZZATO DA VERDI
Alberto Mattioli inviato a Rimini
I riminesi lo aspettavano da 75 anni, 898 mesi, 27.333 giorni, da quel maledetto 28 dicembre 1943
Quando una bomba lo sventrò. Ed eccolo qui, il loro teatro «Amintore Galli», ancora odoroso di vernice che però in questo caso è profumo di resurrezione. La città l’ha festeggiato ieri sera, con La Cenerentola si Rossini interpretata, anzi incarnata dalla cantante lirica italiana più famosa nel mondo, Cecilia Bartoli, guarda caso figlia di un riminese. Gremiti gli 826 posti, notabili, sponsor, i fortunati che hanno potuto comprare un biglietto. Per gli altri, fuori, in piazza Cavour, cuore della città vecchia, lo spettacolo su un maxischermo di tulle di 30 metri, tutti lì nonostante la pioggia, per poter dire «io c’ero» e celebrare questa fenice italiana che risorge dalle sue ceneri e riprende a volare.
Il teatro Nuovo lo progettò il grande Luigi Poletti. Tre ordini di palchi insolitamente altissimi più il loggione, tutto bianco e oro, una sala di gusto neoclassico ma politicamente «progressista»: il palco reale non c’é. Per inaugurarlo arrivò addirittura Giuseppe Verdi che per l’occasione riscrisse lo Stiffelio ribattezza ribattezzandolo Aroldo e nel complesso peggiorandolo. Poco male: il 16 agosto 1857 fu festa grande, e non solo per la musica. «Sulle cantonate, a lettere staccate, si leggeva WV.E.R.D.I. per opera del Comitato Nazionale», scrisse un cronista. L’acronimo significava Viva Vittorio Emanuele Re D’Italia. Tanto che, a Unità fatta, rispediti a Roma i legati pontifici, il teatro gli fu intitolato.
Le ultime note che si sentirono qui furono quelle di Butterfly, nella primavera del’43. Poi vennero le bombe, i saccheggi delle truppe e degli stessi riminesi, impegnati a rimettere in piedi una città distrutta per il 75 per cento, e le infinite polemiche se ricostruire il teatro e come. La sinistra che ha sempre governato Rimini non aveva simpatia per un luogo così aristocratico e borghese, roba da signori insomma, e infatti con la Repubblica lo dedicarono subito a Galli, musicologo e compositore invero modesto, ma autore del popolarissimo Inno dei lavoratori. Però il sol dell’avvenire in salsa romagnola non contemplava nel teatro né opere, men che meno teatri d’opera. Nella parte sopravvissuta finì perfino una palestra.
Poi gli innumerevoli progetti di recupero, facciamolo nuovo, rifacciamolo com’era, ma chi paga insomma la solita dibattite, malattia nazionale. Intanto gli anni passavano. Prima fu restaurato il foyer, che si era più o meno salvato. Poi è stato rifatto il resto, la sala grande, le otto sale prova, in una corsa di tre anni iniziata nel 2015 che in realtà non era finita nemmeno ieri sera, quando gli operai davano ancora gli ultimi ritocchi.
Adesso il Galli è di nuovo dov’era e quasi esattamente com’era, sesto teatro italiano per volume, terzo per rapporto spazio-spettatori. Tradotto: è arioso, ampio, con grandi spazi. Ovunque splende il suo simbolo, il grifone dorato: sulla facciata, sui parapetti dei palchi, sugli ascensori, enorme nel bar. Gli elementi decorativi sono 25 mila, tutti scolpiti a mano, gesso e resina ricoperti a quattro mani di foglia d’oro, d’oro anche le mani degli artigiani dello Studio Forme di Roma. Costo complessivo oltre 36 milioni: 31,7 del Comune e 4,7 della Regione, provenienti da fondi europei.
Bellissimo, davvero. E bellissimo il Rossini semiscenico, con santa Cecilia in gran forma, una notevole direzione di Gianluca Capuano con i Musiciens du Prince e una bella compagnia, Rocha, Corbelli, Chausson. Con un po’ di commozione, ammettiamolo. In questa Italia incattivita che celebra l’ignoranza come una virtù riaprire un teatro significa celebrare il passato per preparare il futuro. Forse non tutto è perduto. Uscendo, ieri sera, veniva voglia di scrivere «Viva Verdi» e magari anche «Viva Rossini» sul primo muro disponibile. Che è poi uno dei tanti modi per gridare: viva l’Italia.
Alberto Mattioli
[La Stampa, 29 ottobre 2018.]