Di Piero Buscaroli
Con l’insegna “Come era, dove era” l’associazione “Rimini città d’arte”, costituita per la ricostruzione del teatro neoclassico di Luigi Poletti e la salvaguardia del Castel Sismondo, opera nientemeno, di Brunelleschi, ha raccolto migliaia di adesioni contrarie al proposito dell’amministrazione comunale, con alla testa il sindaco comunista Giuseppe Chicchi, di realizzare il progetto moderno dell’architetto Adolfo Natalini, che vinse un “concorso di idee” nel 1986. Il progetto Natalini fu respinto due volte dalla soprintendenza competente per territorio, che ha sede a Ravenna. Le sue enormi proporzioni non tengono in alcun conto i vincoli posti a protezione del Castel Sismondo, incombente, più che soltanto attiguo sulla parte posteriore del teatro; e violano, inoltre, la restante parte superstite dello stesso teatro. Nell’intenzione di realizzare a tutti i costi quel che considera il suo progetto, il sindaco Chicchi ha tentato vie private e personali, rivolgendo le sue raccomandazioni ai ministri per i Beni Culturali, prima Paolucci e ora Veltroni; da questo buon compagno, il sindaco Chicchi si aspettava una solidarietà più pronta e comprensiva. Ma Veltroni sembra avere inteso di quale vergogna si coprirebbe il suo nome nei decenni a venire. Sembra non essersene accorta la soprintendente ravennate, Anna Maria Iannucci, del cui appoggio “ di ferro” il sindaco Chicchi suole vantarsi tra gli amici. Mentre Chicchi tentava la seduzione dei ministri, i suoi tigellini tentavano, sotto nome di “restauro”, d’infilare, tra le splendide superstiti colonne neoclassiche degli scaloni, ascensori e toilette; così da poter sostenere , domani, che non si tratta di luoghi degni di rispetto. L’associazione “Rimini città d’arte” era appena riuscita a far saltare i cessi di Chicchi, che questo presentava alla soprintendenza di Ravenna una terza versione dell’orrido piano Natalini, che ridurrebbe il teatro neoclassico come uno squallido cinematografo. Tra vecchi e nuovi incarichi e reincarichi, questo traffico di cartacce è già costato diverse centinaia di milioni ai cittadini riminesi. Il terzo progetto Natalini, consegnato alla soprintendenza di Ravenna ai primi di dicembre, è un rimasuglio rimpasticciato dei precedenti progetti, già respinti . E’ frutto di un compromesso tra il “gruppo Natalini” e una banda di funzionari del ministero dei Beni culturali, alla cui testa è stato posto non si sa da chi, un personaggio che non può davvero dirsi imparziale in questa vicenda: tale professor Ballardini, che si è reso responsabile dello sciagurato completamento del teatro La Fenice di Senigallia. Il nuovo progetto, frutto di tale compromesso, prevede una torre scenica in cemento armato (simile a quella che schiaccia il teatro Carlo Felice di Genova, la cui vicenda, tra distruzione aerea e distruzione postbellica , molto somiglia a quella riminese) alta quaranta metri, a picco sulle strutture rinascimentali, in mattoni, di Castel Sismondo; prevede l’inglobamento delle ottocentesche arcate laterali del teatro in un porticato; il restringimento della sede stradale, la costruzione di vasti ambienti nel sottosuolo della platea e del palcoscenico, in conflitto con l’area di recenti scoperte archeologiche, e, corona dell’opera, una schifosa sala a gradinate, in cemento armato. Se tale progetto fosse realizzato, anche riducendo la torre, come si affaccenda ad assicurare la soprintendente, la splendida sala del Poletti sarebbe massacrata, e la saldatura coi residui della costruzione del Poletti metterebbe al mondo un aborto architettonico da consacrare gloria eterna al trio Chicchi, Natalini, Iannucci. Tutta la vicenda si è svolta in perfetta democrazia pi diessina: la ricerca del fatto compiuto in uffici ministeriali: la soppressione della volontà popolare espressa pubblicamente, di cui nessun conto si è tenuto; la censura operata dalla locale redazione del Resto del Carlino, che si è comportato come autentico organo di regime, ignorando ogni iniziativa contraria al Chicchi e alle sue svergognate ragioni. Che sarebbero la “antidemocraticità” del teatro all’italiana, perché strutturato in palchi e platea., e la bella democrazia del teatro a gradinate (più capiente, essi dicono: 150 posti). I teatri antichi, superstiti e riconostruiti, da Ravenna a Ferrara, da Reggio Emilia e Bologna, da Parma a Pesaro, fino a Fano, dove si sta ultimando il restauro del teatro della Fortuna, un’altra opera del Poletti, hanno rispettato capienze e proporzioni originali senza pregiudizio del valore degli spettacoli. E’ urgente mettere alla berlina l’ignoranza, impastata di macilenti pregiudizi di classe e di affari poco odorosi, del sindaco Chicchi e dei suoi manutengoli. Il teatro di Rimini non appartiene ai Chicchi, Natalini e Iannucci, ma alla città, che dagli appetiti della plebaglia e dalla connivenza degli amministratori è stata sufficientemente castigata nel decorso vergognoso mezzo secolo. Hans Sedlmayr ripeteva sovente: l’esperienza più crudele che gli era toccata nella sua vita di storico dell’arte e dell’architettura non gli venne da questa o quella notizia di monumenti distrutti: “Di simili strazi, le cronache divennero fittissime tra il 1944 e il 1945, quando osservammo che la sete di distruzione dei capi bombardatori inglesi e americani non solo non si placava nell’imminenza della fine della guerra; ma che, quasi temessero di non aver distrutto abbastanza dell’esecrata Germania e dell’Austria che ne divideva le sorti, moltiplicarono gli attacchi con mezzi assurdi, sproporzionati alle fragili e delicate città su cui rovesciavano intere navi di bombe, fiumane di fosforo. I due capolavori del barocco tedesco, Dresda e Würzburg, furono distrutti nel 1945. Eppure, l’orrore e il raccapriccio delle cronache quotidiane, che io ricevevo nelle due città tra le quali dividevo l’esistenza e le mie ansie di studioso, Monaco e Salisburgo, furono superati da una scoperta che feci e maturai in quei mesi: dopo un primo sdegno, un fremito di istintivo orrore, si fece strada un curioso stato d’animo che dopo la guerra si irrobustì, pur sotto giri di parole, reticenze virtuose, mascherature. Io lo chiamai il gusto perverso della distruzione. Si scoprì, con sadico e interessato piacere, che i centri delle città antiche non erano più inviolabili. Le brecce aperte dalle bombe avevano spalancato all’immaginazione altri spazi: in ampiezza, e in altezza. Pur di saper insistere, continuare… Ci metta i sogni dei proprietari dei terreni, i calcolo degli speculatori e degli affaristi, le ambizioni degli architetti… i peggiori di loro, uscirono dalla guerra con stato d’animo di trionfatori. Potevano costruire le loro robe nei centri delle città. L’antico in forme nuove, si disse. L’architettura degradata vedeva arrivare la sua ora”. Sedlmayr combatté quasi solo contro sindaci avveniristici e vescovi innovatori. Nonostante l’aura conservatrice della nobile Baviera e l’appoggio sempre presente dell’antica famiglia reale, non sempre riuscì a spuntarla. “Com’era, dov’era”, l’insegna della vera cultura architettonica, vinse nel duomo di Salisburgo, e dové soccombere nella Marienkirche di Monaco, il cui interno candido, di enorme granaio vuoto, denuncia il vacuo mentale dei ricostruttori. A mezzo secolo da quando cominciarono a ricostruire la loro città polverizzata e incenerita dagli inglesi mentre la guerra finiva, i cittadini di Würzburg si rallegrano di averla ricostruita tale e quale, coi suoi monumenti, le facciate, i putti rococò di pietra. Sulle ferite si è depositata la patina di cinque decenni, le fabbriche superstiti e le ricostruite non si distinguono più, la Residenz scintillava, l’anno scorso, per le feste di Tiepolo che ne dipinse i soffitti, come se mai il fuoco l’avesse lambita. Continuare le distruzioni della guerra anche a pace ritornata fu un bel modo di completare la “liberazione”. “Fare del nuovo con forme nuove” divenne ossessione. Comunisti, socialisti e democristiani avevano clientele fameliche di quattrini e retorica, di gloria e di scempiaggini. Fu così che le ferite della guerra divennero pubblica macelleria edilizia, per decenni. La “guerra fascista” era costata perdite dolorose, ma isolate. Tutti sanno oggi che l’abbattimento di Montecassino non ospitava un solo soldato tedesco, e tuttavia i comandi inglesi e americani la vollero distrutta perché i neozelandesi della divisione che operava nella valle avevano paura di quelle mille finestre a picco sulle loro teste. Nelle città, il terrorismo aereo scelse i monumenti più illustri. Colpire quelli significava deprimere e avvilire le popolazioni. A Bologna il soprintendente Barbacci piantava una puntina sulla mappa della città, per ogni bomba che cadeva. Scoprì che tiravano alle Due Torri. Si seppe, poi, che erano fiorite scommesse, tra gli eroi dell’aria, su quel bersaglio. Non riuscirono ad abbatterle, ma ammazzarono centinaia di persone, lì intorno. “Eppure”, mi disse Epicarmo Corbino, il ministro del Tesoro del Prestito della ricostruzione, “anche nel volto monumentale l’Italia uscì dalla guerra con poche ferite irrimediabili, molti sfregi, ma la grande sostanza intatta. La rovina dei centri urbani, delle coste, delle foreste, è degli ultimi trent’anni”. Andavo a trovarlo quando dirigevo un giornale di Napoli, venticinque anni fa. Quei trent’anni sono diventati mezzo secolo: “Una sola sterminata marea di crimini e abusi incoraggiati dalla lievità delle pene, dall’indifferenza dei giudici ai capolavori artistici e monumentali, e dalla totale solidarietà degl’italiani verso qualsiasi scempio artistico o edilizio offenda l’Italia. “La guerra continua”, la sinistra e vile frase di Badoglio, assume, a Rimini, un suono più che mai sinistro. Il dopoguerra comunista ha cagionato al patrimonio della città perdite assai maggiori che le bombe dei “liberatori”. Come a Berlino Est i comunisti di Ulbricht fecero saltare con la dinamite, per “odio di classe”, l’antico palazzo imperiale, che era uscito in piedi dalla guerra. E come prepararono, bucandogli il soffitto, la “spontanea” distruzione del Duomo, faticosamente salvato dolo la riunificazione, così a Rimini completarono, o con le ruspe o con l’incuria, la distruzione di una quantità di opere che potevano essere salvate, il Kursaal, il rinascimentale palazzo Lèttimi, il palazzo Facchinetti, il vescovado. Questi e altri luoghi, le adiacenze del ponte Tiberio, il palazzo Aquila d’oro, sono altrettante pagine del libro di vergogne della città d’Italia peggio trattata dai suoi amministratori. A cinquantacinque anni dalla parziale distruzione del teatro, capolavoro eretto, tra il 1843 e il 1857, da un elegantissimo epigono dell’architettura neoclassica italiana, Luigi Poletti (1792-1869), ricostruttore, dopo l’incendio, della romana basilica di San Paolo, si sta perpetrando ora lo scempio della sala, danneggiata dal bombardamento e da altre sventure, ma tuttora facilmente salvabile. Il bombardamento del dicembre 1943 fece crollare il tetto sulla sala e il palcoscenico, ma lasciò intatti il portico monumentale e la facciata. “Il saccheggio di materiali e arredi nel dopoguerra” fu un grazioso completamento offerto dalla plebe “liberata” alla demolizione dei “liberatori”. “Fu seguito dalla demolizione di strutture praticamente illese, come gli ordini dei palchi e buona parte dei muri laterali; nel 1959 platea e palcoscenico vennero ricoperti da un capannone per esposizioni fieristiche, attualmente vi è ospitata una palestra”, riassunse Federico Zeri nel 1985, quando fu bandito un concorso per una ricostruzione moderna, dopo che un altro concorso, nel 1955, era rimasto senza conseguenze. Dell’edificio del Poletti, Zeri rivelava l’esistenza dei progetti originali, “compresi alcuni splendidi acquarelli, il piano esecutivo, e centinaia di lettere con indicazioni e prescrizioni”. C’era di che farne una ricostruzione perfetta, “conferendole” un carattere sperimentale, di restauro modello”. E quanto Zeri aveva sentito chiedere da “moltissimi cittadini di Rimini, città che come poche ha sofferto della guerra, e poi è stata incredibilmente sconciata dal baccanale di ignoranza edilizia e urbanistica che imperversò in Italia negli anni della distruzione e del miracolo”. Già Zeri percepì il contrasto di mentalità e di cultura che si stava aprendo fra i ceti cittadini “divenuti più sensibili alle questioni urbanistiche e alla salvaguardia dei centri urbani” e le forze politiche e, diciamo pure così, intellettuali, rimaste ancorate a un passato demagogico e fazioso, “come se si potesse ancor oggi imporre i progetti più insensati…”. A Rimini la cittadinanza ha votato in gran numero per la salvezza e la ricostruzione della bellissima sala. Professionisti come Attilio Giovagnoli e Giovanni Rimondini hanno attentamente messo in luce come lo scempio che si progetta del teatro comporti conseguenze disastrose per il vicinissimo castello malatestiano, opera di Brunelleschi. Con la loro guida, l’associazione “Rimini città d’arte” si propone di salvare le ultime briciole di un patrimonio massacrato per ignoranza e demagogia ma “i progetti più insensati vanno avanti imperterriti”. Ci sono pochi giorni ancora. Sulle maleodoranti trincee di una macilenta demagogia modernista si battono Giuseppe Chicchi e una giunta di servi plagiati. La burocrazia, cui lo Stato ha affidato i suoi monumenti, fiuta l’aria per indovinare chi sarà il vincitore, indifferente alla dannazione della memoria che colpirebbe il nome di chi si prestasse a premiare le ruspe di Chicchi con l’approvazione statale. Per i monumenti dell’infelice città, dopo cinquantacinque anni, la guerra continua. Se le ruspe di Chicchi, con l’aiuto o la connivenza della soprintendente Iannucci, l’avranno vinta, ciò significherà che il imbarbarimento dell’Italia ha imboccato un catastrofico tratto finale.
Piero Buscaroli
[Piero Buscaroli, Il piacere di distruggere, Il Giornale, Milano (giovedì 16 aprile 1998) pag. 19]